
Ti è mai capitato di provare ansia all’idea di non avere una vacanza in programma? Di sentire un piccolo vuoto quando torni da un viaggio e non sai quando partirai di nuovo? Potresti aver sperimentato qualcosa di simile alla notriphobia — una nuova forma di ansia sociale, sempre più diffusa, soprattutto tra le generazioni più giovani.
In questo articolo cercheremo di capire cos’è davvero la notriphobia, perché sta emergendo con forza in questo periodo storico, quali sono i suoi legami con il burnout lavorativo e che cosa possiamo fare per affrontarla in modo più consapevole.
Cos’è la Notriphobia?
La notriphobia, o più precisamente notriofobia, è una delle nuove fobie che stanno emergendo in una società profondamente trasformata dal digitale, dai social media e da un nuovo modo di vivere il tempo libero e l’identità personale. Non è riconosciuta ufficialmente nel DSM-5, il manuale diagnostico dei disturbi mentali, quindi non può essere considerata una vera e propria patologia, ma può essere osservata come una manifestazione d’ansia sociale.
In questo caso specifico, la paura di non avere viaggi in programma si accompagna a un senso di inquietudine, vuoto o inadeguatezza, una sensazione spesso alimentata da dinamiche sociali e culturali ben precise.
L’etimologia corretta del termine non deriva da come molti dicono da “no trip” (nessun viaggio), ma da “notrio-fobia”, ovvero paura dell’indifferenza. Questo dettaglio linguistico ci svela un aspetto fondamentale: il disagio non è legato solo al viaggio in sé, ma al suo valore sociale. Il viaggio è diventato un elemento molto importante nello scambio sociale tra i pari, specialmente per gli appartenenti alla generazione Z, è un argomento di conversazione, di confronto, di unione. La paura di non poter avere un viaggio da condividere, da raccontare, da postare scatena una paura di un’assenza di riconoscimento, un silenzio nell’arena sociale in cui tutti comunicano esperienze.
Viaggiare come status: la pressione sociale
Negli ultimi anni il viaggio è diventato molto più di un piacere personale: è diventato uno strumento identitario. Viaggiare comunica uno stile di vita, un certo successo, una capacità di scoperta e libertà. Soprattutto per la Generazione Z, cresciuta in simbiosi con i social media, condividere le proprie esperienze di viaggio non solo sui social, ma soprattuto nel proprio gruppo di pari, è un modo per affermare chi si è per costruirsi un’identità sociale.
Non avere un viaggio in programma significa, per molti, non avere nulla di interessante da condividere. La paura è che procrastinando la prenotazione si rischi di rimanere a mani vuote, che le tariffe siano troppo alte o i posti disponibili finiti. E questo genera ansia. In più per molte persone, durante le vacanze, i ponti, i weekend lunghi, restare a casa viene percepito come una condizione “anormale” o, peggio ancora, “da sfigati”. Il confronto sociale alimenta una percezione distorta: sembra che tutti siano sempre in viaggio, quando in realtà quella è solo una parte selezionata e filtrata della realtà.
Il viaggio come “respiro” dal burnout
Esiste un’altra dimensione, ancora più profonda, che riguarda il rapporto tra la notriphobia e la pressione lavorativa. In Italia, circa il 31% delle persone* si trova in una situazione di stress cronico o burnout. Il lavoro, per molti, è diventato fonte di frustrazione, routine opprimente, insoddisfazione. E così il viaggio diventa l’unica via di fuga possibile, l’unico modo per staccare, per sentirsi di nuovo vivi e padroni del proprio tempo.
Di conseguenza, la vacanza viene caricata di simbolismo: è meritata, necessaria, liberatoria. Non è solo un momento di svago, ma una boccata d’ossigeno mentale ed emotiva. Per molti rappresenta uno dei pochi “luoghi” in cui si è felice, in cui si è sereni e si esprime in senso pieno il proprio sé. Quando il viaggio finisce, si ricade nel malessere, nella pressione, nel disagio. Il solo modo per ritrovare un senso di benessere diventa… progettare un nuovo viaggio. Ecco perché la mancanza di un piano di viaggio futuro genera ansia: senza una “prossima fuga” in vista, ci si sente intrappolati.
Il rischio del circolo vizioso
Questa dinamica rischia di creare un circolo vizioso difficile da rompere: il presente è faticoso, il viaggio è l’unico respiro, e il ritorno porta solo il desiderio di una nuova partenza. Ma quando il viaggio diventa l’unico momento in cui ci si sente se stessi, c’è qualcosa che non va.
L’ansia di non avere viaggi programmati non è solo nostalgia dell’avventura, ma un campanello d’allarme che ci invita a guardare dentro la nostra quotidianità. Se il lavoro, la routine e le relazioni ci risultano insopportabili, forse il problema non è il viaggio in meno, ma la qualità della vita che conduciamo tra un viaggio e l’altro. Ancora una volta il viaggio può diventare uno strumento per mettere a fuoco altri elementi della nostra vita, una lente su noi stessi, un momento di auto osservazione.
Cosa possiamo fare davvero?
Non c’è nulla di sbagliato nel desiderare di viaggiare. Anzi, il viaggio è uno degli strumenti più potenti di trasformazione personale e benessere. Ma non deve diventare una stampella emotiva, né l’unico modo per sentirsi realizzati o felici.
Il vero lavoro da fare è sullo stare: sul migliorare la qualità della vita quotidiana, sulle relazioni, sull’ambiente lavorativo, sulla gestione dello stress. Bisogna creare uno spazio di benessere che sia accessibile anche quando non si parte, un equilibrio che ci permetta di vivere con pienezza ogni giorno, non solo quelli segnati sul calendario come “vacanza”.
Con questo non voglio dire che non si debbano prenotare i viaggi con anticipo, perché ovviamente è un’ottima strategia per risparmiare e per distribuire le proprie spese in un arco temporale più lungo, ma mi riferisco a tutte quelle persone attribuiscono a questa buona abitudine una connotazione ansiogena, che porta ad un vero e proprio malessere psicofisico e con a volte pensieri intrusivi.
Ti riconosci in questa descrizione?
Hai mai provato questa forma di ansia? Ti è capitato di sentirti vuoto o inquieto quando non avevi viaggi in programma?
Raccontamelo nei commenti o scopri come il travel coaching può aiutarti a ristabilire un equilibrio più profondo tra viaggio e benessere.
*Fonte: ottavo rapporto Censis Eudaimon sul welfare aziendale” rilasciato a febbraio 2025.